articolo di Arianna Galli per la rivista culturale online Superuovo per il 12 Aprile 2021
Cos’è la modernità per Baudelaire? Meta-morfosi. Transitorio, fuggitivo. Nuovo, vivo, presente. È l’immergersi in quello che esiste adesso, nella folla che abita la Terra, ora.
In Il pittore della vita moderna, capitolo tre, cita quel racconto di Poe di cui quasi nessuno si ricorda, senza gatti neri o scene macabre, intitolato L’uomo della folla.
“Dietro il vetro di un caffè, mentre contempla la folla con immenso godimento, un convalescente si fonde con il pensiero a tutti i pensieri a lui intorno.”
L’uomo della folla è un uomo che torna alla vita, attraverso la vita degli altri, perché alla fine si vive veramente quando si vive anche in tutte quelle singole vite che sono entrate nella nostra, quando si è desideranti, mai sazi, degli altri.
E la modernità per Baudelaire sta in questo, nella folla, nella moltitudine di persone-poesie non ancora terminate o messe per iscritto o scelte. La modernità è tutto tranne il perfetto, il definito, il finito, ma non per questo è da disprezzare, dimenticare, non rappresentare.
Baudelaire sosteneva infatti quegli artisti considerati folli perché rappresentavano la vita e non quei passati, morti personaggi religiosi e mitologici vestiti con abiti di secoli prima: quei “folli” mettevano a nudo la loro epoca nelle sue realtà più amare, note a tutti, taciute da tutti, come la frivolezza esasperata, la prostituzione, la piaga dell’assenzio.
Ma “ogni epoca ha il suo sguardo, il suo sorriso” e il sorriso della nostra epoca è degno di essere affrescato, anche se è un urlo di dolore o neanche più quello, un eco di strani mormorii nell’aria, impalpabile, irriducibili a una forma reale, un sorriso che si può vedere solo attraverso gli occhi ridenti, la bocca coperta dalla mascherina.
Ed è proprio la realtà del Covid, tremenda, che riduce il mondo a un palcoscenico su cui scorrono uomini mascherati e sprofondati nell’abisso del terrore e dell’egoismo, che viene rappresentata dagli artisti della nostra epoca, gli street artists.
Dai murales ironici come quello di Tvboy lungo il Naviglio Grande di Milano con la versione Covid dell’Ultima Cena di Leonardo e quello di Banksy a Bristol con la versione Covid della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, a quelli poetici come quello di MrDheo in Portogallo con un’infermiera che a colpi di bastone cerca di uccidere il Covid e quello di Pony Wave a Venice Beach in California, raffigurante due amanti che si baciano pur indossando le mascherine, come ad indicare che il loro sentimento va oltre la distanza a cui il Covid ci sta obbligando: tutti questi murales vogliono rappresentare l’orribile lotta umana contro questo virus incontrollabile e omicida, la resistenza ad esso, il desiderio di riappropriarsi nuovamente della nostra vita libera e vissuta pienamente senza limiti, costrizioni e soprattutto senza più il costante senso di vuoto e di morte.
Ma perché rappresentare questo orrore? Forse perché proprio nel dolore, nella fragilità dell’umano sta la sua bellezza più misteriosa ed estrema.
E così Baudelaire dipingeva con le parole “baracche” e “capitelli sbalzati”, “grossi massi inverditi dall’acqua delle pozzanghere”, “uno spazzino, una mendicante, dei vecchi, i lastricati di Parigi”, “il collarino che scherza attorno alle clavicole”, la “Babele di arcate e di scale”, la “Senna deserta” e “i labirinti di fango in cui l’umanità brulica in fermenti di tempesta”.
E così gli street artists descrivevano con immagini uomini i cui tratti sono nascosti dietro a mascherine, ma che, nonostante ciò, continuano a vivere, a voler parlare anche senza bocche con gesti, sguardi, oggetti, scritte, colori.
La modernità fuggiva, loro con l’arte l’hanno presa.
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