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Inferno - un racconto di Arianna Galli

un racconto di Arianna Galli – finalista del Premio Nazionale Mille e una storia 2020

e pubblicato nel 2021 per il progetto Storie di città –


Lo sai: debbo riperderti e non posso. Come un tiro aggiustato mi sommuove ogni opera, ogni grido e anche lo spiro salino che straripa dai moli e fa l'oscura primavera di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature a selva nella polvere del vespro. Un ronzìo lungo viene dall'aperto, strazia com'unghia ai vetri. Cerco il segno smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia da te. E l'inferno è certo. Eugenio Montale, Le Occasioni


Dall’Arco della Pace avevamo preso la strada dritta, lunga e interminabile che partiva da destra del monumento. Avevamo parlato fino a quel momento a stento e di cose insensate e casuali che non avrebbero mai dato il via a una conversazione decente o di minimo senso logico. Era un silenzio interrotto da improvvisi flussi di pensieri, sparpagliati, confusi nell’aria fresca ma non fredda della notte.

Quella via l’ho fatta varie volte per andare al Parco Sempione, ma mai di notte. Di notte le cose assumono tutte un significato diverso, cambiano perfino forma, di notte. Il buio abbraccia ogni cosa tranne gli oggetti, i tratti di strada graffiati dalla luce dei lampioni o dalle insegne dei locali o dalle sparute finestre ancora accese nei palazzi. Il mondo privo di colori, o dai colori avvolti in drappi di seta nera, sottilissima, assume un’eleganza inaudita e un senso di morte o forse un senso di infinito, di indefinito, un qualche spazio all’immaginazione o una prigione dove, nella solitudine e nel silenzio, finalmente pensare.


“Andiamo a fare un salto al parco che conosco che è qua vicino? Non è distante” le avevo detto.

“No Luca, per mezzanotte devo essere a casa”


Per mezzanotte. Quell’affermazione mi aveva fatto pensare a quelle fiabe che avevo ascoltato narrare da piccolo da mia sorella. La mezzanotte mi sembra ora, a pensarci bene, come l’ora di passaggio tra la magia della notte e la condanna del giorno.


Mi volto verso Cate. Sta tesa come un gatto indifeso sull’estremità della panchina. E in effetti il suo viso mi ricorda un po’ un gatto per non so quale cavolo di motivo. Un leggero neo sta sopra il labbro, un neo invisibile a distanza e che si nota solo avvicinandosi a lei, i capelli neri, leggermente ondulati le cadono dolcemente sulle spalle e gli occhi verdi, verdissimi con le ciglia lunghissime e nere, forse ancora più nere dei capelli, allungate ancora di più ai lati dal mascara. Sono forse quegli occhi e quel neo a renderla un gatto. Chissà...

Le metto la mano sulla coscia.


“E toglitela quella mascherina”


Da quando abbiamo ricominciato a rivederci con il nostro gruppo di amici a fine quarantena l’ho sempre vista con quella dannata mascherina azzurra sulla faccia. La toglie solo per bere o quando le manca ormai il respiro per il caldo. Me ne infischio di quella mascherina, anche se forse ha ragione lei. Ma io ora voglio vederle le labbra. Fino a quel momento non avevo parlato con un umano, ma con una voce proveniente da quell’assurda mascherina. Gli uomini sono fatti d’anima e di carne, togli una delle due cose e non sei più umano.


“No”


“Perché?”


“No”


“Solo un bacio sulla guancia” Me lo dà con la mascherina.


“Non era un bacio” Gliela tiro giù.


“Non sai fare di meglio?” mi bisbiglia all’orecchio per poi mordermi le labbra, stringermi a sé in modo sempre più forte e respingermi.


“È come togliere una caramella a un bambino”


“No, non posso farlo. Amo Luca”


“Anch’io mi chiamo Luca”


“È tardi”


La bocca mi basciò tutto tremante[...] Amor condusse noi ad una morte

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi


Le provo a baciare le labbra, serrate. Mi sembra d’essere diventato un albero secco, arido, esattamente come lei, privo di vita. È la selva dei suicidi, penso. Tutto d’un tratto la tenebra attorno a noi mi fa paura, forse perché sa sempre più di morte, forse perché Cate è diventata come una morta o perché un istante desiderato è ormai passato, irraggiungibile, inafferrabile una seconda volta.


“Cate, dove cazzo vai?”


La seguo mentre attraversa il parco, tra gli alberi alti, che sembrano fiamme verso il cielo, ma fiamme fredde. Ho sempre pensato che potessero esistere due tipi di fuochi: quello dell’inferno e quello dell’Empireo, la dimora dei santi nel paradiso. Empireo che deriva dal greco “nel fuoco” è un fuoco che scalda che dà vita, invece il fuoco dell’inferno è una fiamma gelida che distrugge come il freddo la pelle, d’inverno.

E ora sento di camminare in fuochi freddi.


La volto.


Mi stringe ancora, le sue labbra diventano di nuovo morbide, sento di nuovo il suo sapore.


Io venni in loco d’ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta


L’oscurità diventa sempre più muta, più silente, e anche il più leggero vociare di luci delle finestre si interrompe.

Si mette dandomi le spalle, ponendo le mie braccia sulle sue a mo’ di sciarpa per scaldarsi. Siamo solo materia, penso. E anche così si smette di essere umani...


"Luca, guarda in alto”


C’è uno sprazzo di nuvole sopra di noi, termina a sinistra e a destra, dove finisce il nostro sguardo. Al di là, vuoto di un nero indistruttibile. Le nubi sembrano batuffoli di cotone spezzati, frantumati come le nostre mani, come le pause nei baci.

Inizia a recitare poesie. Le avevo già sentite forse, ma dalla sua bocca, vestite della sua voce calda mi appaiono come diverse, sovrumane.


“Il tuo cuore batte più forte ora con Catullo, ma non quanto prima con Neruda”


La sua mano sopra al mio petto diventa come parte di me, la consapevolezza di quel battito che accelera e di cui prima neanche mi accorgevo, come un calcolo trascurabile della mia esistenza.

La vedo camminare verso casa, come un angelo nella sua maglietta beige e la gonna bianca.


“Cate”

“Luca, no”


Smetto di guardarla. Non so che maschere indossiamo in questa recita: forse quelle di due sconosciuti che non provano nulla, due oggetti inanimati in una Liguria arida e senza vita, o forse, invece, due anime che non sanno parlare d’amore. Ma togliendo tutto, levando il belletto e il costume di scena mi ritrovo come un uomo nudo, privo di ogni apparenza, che avendo sempre vissuto in una caverna vede per la prima volta luce, come se lei avesse gli occhi che cerco da una vita, come se io non avessi mai visto la realtà vera.

Mi volto dandole le spalle, addentrandomi nell’oscurità lontano dal lampione che illumina il suo palazzo.

Una leggera brezza mi tocca la pelle.

Nella testa mi ritorna in mente confuso un componimento di Montale, credo...


Debbo riprenderti ma non posso... .... oscura primavera di Sottoripa... ...Paese di ferrame e alberature... ...Cerco il segno smarrito ch'ebbi solo da te....


Lei è il miracolo che aspetto da una vita, ma non mi ama, è stato solo un bagliore di luce, scomparso in un secondo, un lampo effimero di verità eterna...


Non ci rivedremo più ti ho perduta angelo fermati Cate


Il portone si chiude dietro di lei con un tonfo.


E l’inferno è in terra.






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