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Verità & Miseria

articolo di Arianna Galli per la rivista culturale cartacea Studi Cattolici, numero 727 del Settembre 2021



Non esiste lettura degna di essere comunicata ad altri se non devia fino a frantumare la forma, se non deforma i versi fino a creare un rifugio.

Questo scrive il grande critico statunitense Harold Bloom nel suo saggio “Frantumare la forma” che introduce in questa nuova edizione la più importante raccolta poetica di John Ashbery, raccolta vincitrice dei 3 più importanti premi americani per la poesia, il Premio Pulitzer, il National Book Award e il National Book Critics Award.


Nato nel 1927 a New York e morto nel 2017, Ashbery è uno dei poeti più influenti del suo tempo.


Allusivo, evocativo, complesso, ermetico, spiritualista, è influenzato dagli sviluppi a lui contemporanei dell’arte figurativa, in particolare dall’espressionismo astratto di Jackson Pollock.

Ho tentato tutto, poco era immortale e libero. Altrove è come se stessimo in un luogo dove il sole si sfarina, aspettando che qualcuno venga. Volano parole aspre…

Come la pittura di Pollock è caratterizzata dalla tecnica istintiva del “drip painting”, in cui il colore è lanciato, lasciato sgocciolare (in inglese, to drip) spontaneamente sulla tela, traendo le forme, che appaiono davanti agli occhi dell’artista che le crea, dall’inconscio, così anche Ashbery plasma e dipinge sequenze di immagini: immagini surreali che toccano spazi onirici, metafisici, ma che vogliono tracciare nel reale un sentiero alla ricerca di un senso, di una verità più ampia dell’esattezza, una verità che sia in grado di baciare gli archi del cielo e l’oltre a noi uomini celato.


Chiave di lettura dell’intera raccolta è l’omonima interminabile poesia di 552 versi che la chiude: in essa, Ashbery, descrivendo il capolavoro del Parmigianino, pittore cinquecentesco italiano, “L’autoritratto entro uno specchio convesso” - che dà appunto il nome alla poesia e alla raccolta – esplora la dinamica che si svolge tra l’arte e l’anima di chi la crea.


Il quadro rappresenta l’artista che ritrae il suo volto al centro di una stanza, con in primissimo piano la mano sinistra, deformata dallo specchio, e descritta nei minimi particolati, dall’anellino al mignolo al finissimo ricamo della manica, mentre la mano destra, intenta a dipingere, non compare.

Lo specchio scelse di riflettere solo ciò che egli vedeva, l'immagine vetrificata, imbalsamata, proiettata in un angolo di 180 gradi.
L’anima deve restare dov’è, per quanto inquieta, a sentire la pioggia sul vetro e bramare d’essere libera, all’aperto.
Il segreto è troppo ovvio: la pena che ci suscita ci brucia, fa sgorgare lacrime ardenti. L’anima non è un’anima, non ha segreti, è piccola e colma.
Nulla resta se non il proprio vuoto, la sua stanza, il nostro istante di attenzione.

Quest’opera d’arte così diventa metafora della poetica di Ashbery: nelle sue composizioni non abbraccia tutti gli elementi del reale, ma solo alcuni suoi frammenti, che vengono deformati, che subiscono una metamorfosi che ne rivela l’essenza e ciò che il poeta compie in ogni poesia è ritrarre sé stesso, la cui anima diventa, nell’atto di creare, prigioniera dell’opera d’arte stessa nell’istante in cui è stata cristallizzata dall’inchiostro delle parole.


E queste parole sono solo speculazioni(dal latino speculum, specchio), cercano senza poterlo trovare il senso della musica, ma a questa musica, la musica degli angeli e delle stelle, la sua poesia mira, con le sue visioni che si insinuano nel reale, visioni la cui bellezza è amplificata dalla traduzione di Damiano Abeni che arricchisce di immagini e suoni nuovi le atmosfere già create da Ashbery, visioni che ritraggono una realtà frantumata e deformata dalla parola che però tenta di giungere almeno ad un sogno della verità.



il numero cartaceo in cui è contenuto l'articolo è acquistabile al seguente link:



studi cattolici n 727 - pagine 74-75
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